Nuovi stadi, nonluoghi simbolo dello sport moderno

Stadio san paolo vuoto...
Nel corso degli anni la macchina economica che è penetrata pure nel mondo dello sport ha portato le società sportive a configurarsi sempre più come vere e proprie imprese economiche. Squadre quotate in borsa, contratti miliardari con sponsor e televisioni, giocatori pagati a peso d’oro.
Il business dello sport moderno sta avendo ovvie ripercussioni pure sul modo di fruire e concepire dei momenti di aggregazione come quello di andare allo stadio. Le partite si guardano principalmente alla televisione, la vittoria della propria squadra del cuore oltre ad un istante di effimera felicità potrebbe regalare una corposa vincita proveniente dal curcuito delle scommesse (a volte clandestine a volte legali, a dipendenza se è lo stato o meno a promuoverle).

Cambia anche il modo con cui le società sportive guardano al loro pubblico: non più e non solo come appassionato tifoso ma soprattutto come potenziale consumatore. Lo sport inteso quindi come fonte di guadagno, un’entità che entra a far parte a tutti gli effetti delle logiche di mercato e come tale necessita di proprie e specifiche strategie di marketing e di gestione.
Tra i vari aspetti legati a questo cambiamento nella concezione dello sport, vi è pure quello logistico ed infrastrutturale. Questa nuova concezione di manifestazione sportiva ha quindi portato alla necessità di un ripensamento e di una riprogettazione dei luoghi tradizionali in cui l’evento sportivo viene fruito: lo stadio.
Lo stadio da luogo di socializzazione, svago ed incontro diventa luogo di intrattenimento totale in cui la partita diventa semplicemente una delle tante attrazioni che questa infrastruttura offre e di cui lo spettatore-consumatore può usufruire.
Mentre fino ad un decennio fa lo stadio veniva inteso come luogo di socializzazione, ora per manager e dirigenti la manifestazione sportiva, come qualsiasi altro soggetto economico, deve essere fruttuosa in termini monetari.

Si sente spesso dire che lo stadio ed in modo particolare le curve rappresentino un riflesso di uno spaccato di società molto importante. Ma è ancora attuale questa affermazione?
Molto probabilmente sì, infatti gli aspetti che verranno presi in considerazione qui di seguito si possono ritrovare pure nel contesto più ampio della vita quotidiana di ogni persone.

La stadio costituisce quindi "un osservatorio sociale di grande utilità che va affrontato immergendosi al di là dei facili moralismi"[1] e i nuovi stadi rappresentano degli spazi che Marc Augé nella sua introduzione ad un’antropologia della surmodernità difinisce come nonluoghi.

"Se un luogo può definirsi identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario, né razionale, né storico definirà un nonluogo" [2]. E ancora: "con nonluogo stiamo indicando due realtà complementari ma distinte: quegli spazi costituiti in rapporto a certi fini (trasporto, transito, commercio, tempo libero) e il rapporto che gli individui intrattengono con questi spazi" [3]. "Lo spazio del nonluogo non crea quindi né identità singola, né relazione, ma solitudine e similitudine"[4]
Partendo da questa definizione molti sono gli elementi che permettono di riconoscere e definire i nuovi stadi e la relazione che i tifosi instaurano con essi come dei paradigmi dei nonluoghi della surmodernità, e queste caratteristiche sono poi facilmente traslabili ad altri spazi della vita quotidiana come le nuove piazze e i vari centri commerciali.

Tra gli aspetti più palesi vi è sicuramente la scelta dell’ubucazione degli stadi. Non più nei centri urbani dov’erano originariamenti ubicati, ma trasferiti in periferia senza più nessun legame storico e relazionale con il territorio circostante. Emblematico è l’esempio del Sud Africa e di Città del Capo dove, in vista dei Mondiali di calcio del 2010 è in fase di progettazione la costruzione di uno stadio faraonico nella parte periferica più povera della città sudafricana dove, manco a dirlo, verrà spazzata via la più grande bidonville della metropoli. L’aspetto estetico magari ne gioverà pure, ma quale sorte toccherà alle migliaia di persone che su quel territorio, seppur in condizioni pessime e precarie, vivevano?

Un secondo aspetto da tenere in considerazione riguarda lo stadio in sè. Da patrimonio pubblico (generalmente gestito dai comuni), i nuovi stadi stanno via via diventando di dominio privato. Grandi multinazionali, vedendo possibilità di sfruttamento a fini commerciali di questi luoghi, hanno iniziato a ristrutturare o costruire nuovi stadi il cui motto può essere racchiuso nello slogan: Komfort, Kommerz, Kontrolle. La relazione che il tifoso ha con questo nuovo tipo di stadio e con l’evento sportivo in sè cambia radicalmente. La presenza di telecamere e di regolamenti degni delle caserme dei più "efficienti" eserciti non permettono al tifoso di esprimersi liberamente (non si sta parlando di tolleranza verso manifestazioni di violenza gratuita, ma di leggi assurde come ad esempio quella che in inghilterra vieta ai tifosi di alzarsi dal proprio seggiolino durante la partita per incitare la propria squadra, oppure il divieto di portare allo stadio striscioni o bandiere che non facciano parte del marchandising ufficiale rivenduto della propria squadra del cuore). La presenza invasiva degli sponsor che in cambio del loro contributo monetario pretendono sempre più visibilità sia sugli spalti sia sui teleschermi delle reti, che a suon di miliardi si sono accapparrati i diritti televisivi, trasformano i tifosi in burattini che veicolano il loro messaggio pubblicitario. Mentre storicamente erano i tifosi ad organizzare "lo spettacolo" sugli spalti, con come unico fine quello di supportare la propria squadra del cuore, ora sono i grandi sponsor, soprattutto nelle grandi manifestazioni sportive, ad avere il monopolio delle gradinate: basti ricordare le bandierine rossocrociate con in bella mostra il nome delle aziende che le hanno sponsorizzate e che i tifosi della nazionale rossocrociata sventolano con orgoglio, non rendendosi nemmeno conto di essere sfruttati per veicolare i vari messaggi pubblicitari che le varie televisioni non mancheranno di mettere in bella mostra.
Vi è inoltre tutto l’aspetto commerciale: allo stadio non si va più solo a vedere la partita, ma diventa luogo dove poter fare la spesa, nutrirsi ed addirittura tagliarsi i capelli. Questo nuovo business va a sopperire la diminuzione delle entrate e dei posti disponibili, soprattutto quelli popolari dove i prezzi sono storicamente più bassi (stadi più piccoli per adeguarsi allo scenario televisivo e al tele-tifoso), e a coprire i costi di gestione di questi nuovi stadi, la cui fisionomia del nuovo tifoso, richiede alti standard di confort e servizi.
Ridisegnando la struttura degli stadi e ridefinendo il rapporto con i propri spettatori (o clienti) la tendenza è quella di allontanare il tifoso attivo disaffezionandolo alla propria squadra e di trasformare lo stadio in un luogo asettico, dove gli spettatori usufruiscono passivamente del servizi offerti: finché la qualità dello spettacolo resterà alta gli spettatori affolleranno gli spalti, quando questa dovesse venir meno, allora cambieranno squadra o intrattenimento così come, in un regime di libero mercato, cambierebbero ristorante o supermercato.

La trasformazione dello stadio in luogo di "tante attrazioni", a metà tra il parco divertimenti e i moderni centri commerciali, finisce quindi per cancellare lo stadio come luogo identitario e di socialità privilegiato in cui, in nome di un valore condiviso, la fede nei colori della squadra, si ritrovano e si rincontrano persone di cultura, estrazione e formazione diverse, unite in modo altrove impensabile da un legame profondo con la squadra che in quel momento ed in quel luogo rappresenta l’intera comunità.

Un ultimo appunto: storicamente è l’organizzazione di competizioni internazionali come ad esempio gli europei di calcio a fungere da catalizzatore di tutti questi cambiamenti… benvenuto Euro08…

[1] Mantegazza R.,(2000) Una città per narrare, Moltemi, Roma, p.43
[2] Augé M.,(1993) Introduzione ad una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano, p.73
[3] Ivi. p.87
[4] Ivi. p.95

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