Una partita come breve terapia

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Personalmente mi piace pensare al calcio, e allo sport in generale, ancora come gioco. Non ho pertanto intenzione, almeno in questa sede, di scrivere delle multinazionali sportive, dei contratti pubblicitari da capogiro, delle forze dell’ordine in tenuta da trincea, delle UBS Arene ecc.; tutti aspetti collaterali, rispetto al gioco nella sua essenza (e ci mancherebbe!), ma che è giusto assurgano a tematica protagonista. Lascio ai bravi gestori di questo sito l’arduo compito. Io vorrei, invece, scrivere alcune righe, del tutto spontanee, sull’aspetto terapeutico che una partita (di calcio, hockey, basket, tennis, poco importa) può racchiudere in sé.
Fra pochi giorni inizieranno gli Europei, proprio qui da noi, anche se in coabitazione con l’Austria. Un simile evento non può certo lasciare indifferente un appassionato di sport come me! Inevitabile, quindi, che i miei occhi guarderanno 22 persone ammazzarsi di km per gioco e le mie coronarie, magari, sussulteranno. Intanto, però, è importante sapere come voglio guardare la partita. La considererò un mezzo terapeutico oppure una ragione per mostrare il mio peggio?

Di questi tempi, dove un po’ ovunque cova la follia e sono sempre meno le persone dotate di ragionevolezza ed educazione, un modo spavaldo e violento di porsi di fronte all’evento sportivo provoca solo danni (non materiali, pfui!, bensì mentali, leggasi legge del branco o conformismo, fate voi). È matematico. Del resto a tutti è conosciuta la forza emotiva delle immagini. Perché, allora, manifestare in maniera così eclatante frustrazioni che, alla fine, si rivelano essere assolutamente trascurabili? Sono altresì convinto che, in presenza di un problema davvero scabroso, andremmo ovunque ma non allo stadio. Non sarebbe preferibile, dunque, utilizzare la durata della partita per attenuare le nostre veniali frustrazioni e lasciar che evaporino da sole? Provare a immaginare la partita come momento di aggregazione, per ricordarci che siamo persone, che deteniamo ancora il potere di influenzare il nostro ambiente, senza soccombere sotto i colpi dello stress lavorativo o della nostra vita, oramai ridotta ad uno scarno modello di take-away. Andare in piazza con gli amici e abbordare una ragazza, seguire la partita magari con una grigliata di cervelats, dal sapore ormai quasi storico, oppure più comodamente sul divano di casa. Così, a fine serata, ci coricheremo innamorati, sazi o rilassati. Sempre meglio che mostrare la nostra ignoranza in uno stadio, suffragando, senza nemmeno averne l’intenzione, la teoria dei non-luoghi di Marc Augé. Ignoranza abbinata, non di rado, ad un bel verbale in centrale. Spero davvero che questi Europei restituiscano, mediante i nostri cerebri, il giusto valore alle piazze, alle persone, ai cervelats, a valori quali amicizia e rispetto, al nostro divano e, naturalmente, alle battute dell’Armando Ceroni.
Buona terapia a tutti!

 

 

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One Response to Una partita come breve terapia

  1. Filo Filo says:

    Finalmente qualcuno che riconosce al calcio alcuni dei suoi meriti, mi avevate quasi stufato con tutte le vostre critiche. Bravo Filo!

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